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27 nov 2025

La Co2 diventa il motore delle centrali del futuro
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La Co2 diventa il motore delle centrali del futuro

La Cina è ancora una volta un passo avanti nel futuro della produzione energetica, infatti, proprio in questo paese il primo generatore commerciale al mondo alimentato da anidride carbonica supercritica è stato collegato alla rete elettrica nazionale. L’annuncio arriva dalla China National Nuclear Corporation (CNNC), che ha scelto di installare il sistema all’interno di un impianto siderurgico della provincia di Guizhou. Qui il dispositivo sfrutta il calore di scarto proveniente dal processo di sinterizzazione, dove le temperature superano i 700 °C, trasformandolo in elettricità senza ricorrere al tradizionale vapore.

Ciò che rende particolare questo impianto da 15 megawatt è la scelta della CO₂ come fluido di lavoro. Portata in condizioni supercritiche — uno stato intermedio in cui presenta proprietà sia dei gas sia dei liquidi — l’anidride carbonica risulta più densa del vapore, consentendo una progettazione molto più compatta delle turbine e una gestione più efficiente del calore. Secondo le prime valutazioni, i due moduli installati sarebbero in grado di estrarre almeno il 50% di energia in più dal calore di scarto rispetto ai sistemi a vapore oggi diffusi in tutto il mondo.

Il funzionamento non prevede combustione aggiuntiva, ma solo il recupero dell’energia termica che normalmente andrebbe dispersa nell’ambiente. Questo dettaglio è alla base dell’interesse internazionale verso le turbine a CO₂ supercritica, considerate una possibile evoluzione non solo per l’industria pesante ma anche per il nucleare di nuova generazione, l’esplorazione spaziale e alcuni sistemi solari di concentrazione. Le dimensioni ridotte degli impianti, abbinate alla possibilità di raggiungere rendimenti superiori al 50% in scenari ad alta temperatura, li rendono candidati ideali per applicazioni in cui ingombro ed efficienza sono fattori critici.

La CNNC lavora alla tecnologia da oltre dieci anni, ma non è l’unico attore in corsa. Negli Stati Uniti è operativo il progetto STEP (Supercritical Transformational Electric Power), realizzato in collaborazione tra SwRI, GE Vernova, GTI Energy e il Dipartimento dell’Energia. Il dimostratore da 10 MW, installato in Texas, ha superato la prima fase di test nel 2024 raggiungendo 4 MW con una temperatura di 500 °C, e punta ora a operare stabilmente a 715 °C. Una volta completato, rappresenterà la conferma su larga scala delle prestazioni dichiarate per questa tecnologia.

La Cina rivendica però il primato mondiale, poiché come dicevamo all'inizio è la prima ad aver avviato una versione commerciale connessa alla rete elettrica e destinata a funzionare in modo continuativo recuperando calore industriale reale, non quello simulato in un ambiente sperimentale. I ricercatori dell’Istituto di Meccanica cinese sottolineano inoltre come la compattezza dell’impianto lo renda adatto anche a sistemi mobili, compresi i reattori nucleari trasportabili o le piattaforme energetiche per missioni spaziali.


27/11/2025


27 nov 2025

L'oro alla patria per pagare l'austerità
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L'oro alla patria per pagare l'austerità

Manovra 2026, via libera all’oro della Banca d’Italia che passa allo Stato: respinti 105 emendamenti


Le riserve auree, pur inserite nel bilancio di Bankitalia come attività proprie, sono patrimonio dello Stato. Dichiarate inammissibili per materia o copertura 105 proposte

Manovra 2026, via libera all’oro della Banca d’Italia che passa allo Stato: respinti 105 emendamenti
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Nella selva di cifre, commi, coperture e veti che è la manovra economica per il 2026, c’è un emendamento-simbolo, proposto da Lucio Malan (FdI), che ha superato indenne il filtro dell’inammissibilità. Questo, stabilisce che le riserve auree — che la Banca d’Italia custodisce e iscrive nel proprio bilancio come attività proprie, ma che non sono formalmente qualificate come patrimonio disponibile dello Stato — divengano, secondo l’emendamento, proprietà diretta dello Stato «in nome del Popolo italiano».

L’emendamento sull’oro e il «no comment» della Bce

L’emendamento sull’oro è un tassello soprattutto simbolico. Mette nero su bianco un principio che in passato aveva già acceso discussioni: le riserve auree, pur inserite nel bilancio di Bankitalia come attività proprie, sono patrimonio dello Stato. La Banca d’Italia continua a detenerle e gestirle, ma lo fa in nome dello Stato italiano. Si tratta di solo di una frase che specifica ma ha il forte sapore di una dichiarazione di sovranità economica che arriva proprio in un momento di tensioni e ridefinizioni all’interno del rapporto con l’Europa.

Ed è proprio da Francoforte che arriva una nota tanto sobria quanto significativa: «La Bce non è stata consultata dalle autorità italiane sulla bozza di emendamento, e non ha commenti da fare sul tema». Un «no comment» ai giornalisti che pesa perché certifica una distanza procedurale e politica, e conferma che la modifica italiana non è frutto di un confronto preliminare con l’istituzione europea che sovrintende al sistema delle banche centrali.


Gli emendamenti sulla sanatoria edilizia

A superare il primo vaglio restano anche tre dei quattro emendamenti sulla sanatoria edilizia, mentre il quarto — quello che avrebbe imposto ai Comuni il rilascio obbligatorio dei titoli in sanatoria entro il 31 marzo 2026, richiamando le vecchie leggi del 1985, 1994 e 2003 — è stato invece fermato per mancanza di coperture.

La valanga di emendamenti inammissibili

Accanto ai «salvati» emerge però un dato macroscopico: nella mattinata del 26 novembre, 105 emendamenti dei 414 emendamenti «segnalati» dai gruppi in commissione Bilancio sono stati dichiarati inammissibili dalla presidenza. Diciotto per materia — fuori tema rispetto alla legge di bilancio — e ben 87 per mancanza di copertura. Una cifra che restituisce senza filtri la scarsità di margini finanziari con cui la maggioranza è chiamata a negoziare i propri desiderata.

Per i 18 emendamenti espunti per materia sarà possibile presentare rapidamente nuove proposte sostitutive. Molto più complessa invece la situazione dei 87 respinti per copertura: potranno essere riformulati, ma solo se accompagnati da una copertura credibile, in un quadro di risorse che resta rigidissimo.

27/11/2025

27 nov 2025

Arriva la tassa per le auto elettriche
pubblicato da: admin

Arriva la tassa per le auto elettriche

Facciamo un salto indietro nel tempo: qualche anno fa, con il Green Deal, nasceva in Europa (e nel resto del mondo) la tendenza ad agevolare fiscalmente l’auto elettrica. La ragione di questo provvedimento era che, detassando le elettriche in uso ai privati, gli Stati rinunciavano a parte del gettito fiscale ma promuovevano la mobilità pulita. Dopo la pandemia, con i costi dell’energia alle stelle e l’attuale clima di incertezza globale (l’invasione russa dell’Ucraina, i dazi Usa, la crescita economica della Cina), oggi le nazioni si interrogano: si deve ancora rinunciare agli introiti derivanti da un'ipotetica tassazione delle elettriche? La risposta, per alcuni governi, è no. Scopriamo cosa sta accadendo, Paese per Paese: tra chi ha già eliminato le agevolazioni, e chi si accinge a farlo. Trasformando il Green Deal in... Tax Deal.

Svizzera

Dal 2030, la Confederazione Elvetica potrebbe tassare anche le elettriche. A preoccupare sono soprattutto i mancati incassi dalle accise dei carburanti, legati a un aumento delle auto a batteria e alla progressiva riduzione delle termiche. Per ogni mezzo a corrente che prende il posto di uno con motore a combustione, infatti, l’ammanco medio annuo è di 600 franchi (641,89 euro). Oggi solo i proprietari dei veicoli a benzina o a gasolio pagano le imposte sugli oli minerali, per 1,3 miliardi di franchi (1,39 miliardi di euro) l’anno. Secondo il governo, tutti i veicoli motorizzati devono contribuire al finanziamento delle infrastrutture con lo schema “pay-per-use”: più si circola e più si paga. Sotto esame c’è una tassa variabile in base alla percorrenza: 5,40 franchi (5,78 euro) ogni 100 km, con la tariffa che varia in funzione del tipo di veicolo e del suo peso. In alternativa, un’imposta sulla corrente utilizzata per ricaricare presso colonnine pubbliche o wallbox: 22,8 centesimi (24,40 centesimi di euro) per chilowattora (kWh). Dal 1° gennaio 2023, inoltre, le elettriche sono soggette di nuovo all’imposta sull’importazione (circa il 4% del valore del veicolo).

Regno Unito

Dal momento che solo le termiche pagano le tasse sul carburante, il governo cerca “un sistema più equo per gli automobilisti”, così da trovare le risorse per ammodernare le strade. Inoltre, il rallentamento dell’economia preoccupa il governo di Keir Starmer, che potrebbe valutare un aumento delle imposte per coprire un deficit di bilancio di 30 miliardi di sterline (34 miliardi di euro). In un simile contesto, l’esecutivo valuta di tassare le percorrenze delle elettriche: 3 pence (3,4 centesimi di euro) per ogni miglio (circa 1,6 chilometri). Il balzello costerebbe ai guidatori in media 250 sterline l’anno (283 euro), ossia 1,8 miliardi di sterline entro i primi anni del prossimo decennio. Una cifra comunque contenuta rispetto agli incassi garantiti dalle accise sui carburanti: per il 2025-2026 sono circa 24,4 miliardi di sterline (il 2% delle entrate statali). Inoltre, da aprile 2025, anche le elettriche pagano il bollo.

Norvegia

Il “regno dell’elettrico” attua una graduale inversione di rotta sulle agevolazioni fiscali, spinto dal successo del mercato e dalla necessità di bilanciare le finanze statali. L’esenzione dall’Iva (al 25%) è stata la misura fiscale più significativa per promuovere le auto elettriche in Norvegia: il governo ha proposto di eliminarla a partire dal 2027. Nel 2023, è stata reintrodotta l’Iva su quelle che superano un determinato prezzo (500.000 corone, pari a circa 43 mila euro, con proposte di ridurre ulteriormente la soglia in futuro). C’è una tassa di registrazione una tantum che tiene conto del peso del veicolo elettrico: un costo addizionale per ogni chilogrammo che eccede una soglia stabilita, con incrementi progressivi, così da compensare il mancato gettito fiscale. Comunque, per scoraggiare un eventuale ritorno al termico, per le macchine a benzina sono al vaglio accise maggiorate e una tassa di immatricolazione più cara

Londra

Nelle scorse ore, il sindaco della capitale britannica Sadiq Khan ha confermato che i veicoli elettrici perderanno l’esenzione totale dal pedaggio urbano per il centro dal 2 gennaio 2026: dovranno pagare quasi come una qualunque auto a benzina. Per le Bev, addio allo sconto del 100%: via invece alla riduzione del 25% nel caso delle auto e del 50% quando si tratta di furgoni e autocarri. Dal 4 marzo 2030, solo un -12,5% per le vetture a batteria e -25% per gli altri mezzi. Ma c’è una seconda “scossa” spiacevole per tutti: anno nuovo, aumento nuovo, con la tassa che vola da 15 a 18 sterline al giorno. Ossia 20,38 euro. Introdotta nel 2003, la congestion charge è attiva dalle 7 alle 18 nei giorni feriali, e tra le 12 e le 18 nei fine settimana e nei festivi. Forti le polemiche, con Edmund King, presidente AA (The Automobile Association) che esorta Sir Sadiq a revocare la sua decisione. Gli incassi del ticket non hanno un peso nella scelta del primo cittadino, che spiega come il programma debba “restare adatto allo scopo” a fronte di un forte aumento del numero di Bev in circolazione: rappresentano un quinto di tutti i mezzi nella zona a pedaggio urbano. Tradotto: il balzello per le elettriche e il rincaro per tutti servono a far calare il traffico, e non a incassare più sterline. In generale, senza le modifiche del 2026, entrerebbero 2.000 veicoli in più, causando code e ritardi: questa almeno la versione ufficiale. Attenzione adesso alle possibili ripercussioni sulle altre metropoli nel mondo, che hanno copiato Londra. Non ultima, l’Area C di Milano: si parla di progetti per far pagare il ticket anche alle elettriche. Fra l’altro, anche qui si segnalano aumenti (7,5 euro oggi, contro 5 euro sino al 29 ottobre 2023) e possibili estensioni orarie.

Francia

Parigi sta gradualmente eliminando importanti agevolazioni fiscali per le auto elettriche, mentre rafforza la tassazione sui veicoli inquinanti: per le elettriche è stata abolita l’esenzione dal pagamento delle tasse di immatricolazione annuali (l'equivalente del nostro bollo auto), una misura introdotta con la legge Bilancio 2025 ed entrata in vigore dal 1° maggio 2025 in molte regioni. L’importo, che può arrivare fino a 750 euro l’anno, dipende dalla potenza fiscale (cavalli fiscali) del veicolo e dall’aliquota stabilita da ciascuna regione. In ogni caso, Parigi si sta concentrando sull’aumento delle imposte per le termiche, su peso ed emissioni di CO2.

Germania

Premesso che periodicamente arrivano corposi ecobonus, e che non ci sarà un inasprimento fiscale, dalle parti di Alexanderplatz è aperta la discussione sulla ricarica. La base di partenza è che il proprietario di una vettura a benzina, quando fa il pieno, paga le tasse in base al numero di litri erogati dalla pompa. Berlino desidera adottare lo stesso criterio per i titolari delle elettriche, regolamentando in maniera molto rigorosa le colonnine e i contatori di kWh, con dati firmati e crittografati dalla stazione per evitare le truffe. Per le tariffe domestiche, con la ricarica gestita dal contatore di casa, sono allo studio tariffe dinamiche con contatori intelligenti per ottimizzare i consumi. Si fa largo intanto l’ipotesi di obbligo di ricarica delle ibride plug-in, in previsione del boom di questi veicoli.

Paesi Bassi

La notevole diffusione delle auto elettriche, agevolate da anni in vari modi, impone una riflessione a L’Aia. Fino alla fine del 2024 le auto elettriche non pagavano la tassa di proprietà: dal 1° gennaio 2025 versano il 25% dell’imposta. Dal 2026 la pagheranno per intero. Calcolata, come per le termiche, in base al peso.

Danimarca

La nazione europea con uno dei carichi fiscali più elevati per gli autoveicoli sta reintroducendo in maniera graduale le imposte sulle elettriche: tasse di registrazione e sulla proprietà. Entro il 2030 pagheranno come le termiche, in base al valore e al peso.

Italia

Grazie alle tasse sui carburanti, lo Stato incassa circa 39 miliardi di euro l’anno di accise (più Iva del 22% sul totale). Risorse che vanno molto oltre il rifacimento delle strade, e che in diversi casi sono ossigeno per le casse dello Stato. Attualmente circolano circa 339 mila auto elettriche su circa 40 milioni di vetture: se l’obiettivo del governo di 4,3 milioni di elettriche entro il 2030 venisse centrato, il fisco perderebbe introiti giganteschi derivanti da benzina e diesel. A maggio 2024 il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha riflettuto sul problema, immaginando in futuro di poter lavorare sulla traslazione delle tasse dai carburanti all’elettricità. Inoltre, col bollo auto (tassa di proprietà), le Regioni incamerano circa 7 miliardi di euro l’anno: per legge nazionale, le elettriche non pagano il bollo per 5 anni. Da questo punto di vista non sono attesi stravolgimenti, a meno di un’improvvisa accelerazione sul federalismo fiscale che dia alle Regioni maggiore margine di manovra.

Stati Uniti

Mentre il presidente Donald Trump ha cancellato il “mandato elettrico” di Joe Biden, ci sono 28 Stati che hanno già implementato una tassa annuale di registrazione aggiuntiva per i veicoli elettrici, con l’obiettivo di compensare la perdita di gettito proveniente dai carburanti: da 50 a 200 dollari l’anno. Oregon, Utah e altri stati stanno valutando la Road-User Charge (Ruc, tassa sulla percorrenza). A livello federale il dibattito si concentra sull’estensione del credito d’imposta per le auto elettriche, con proposte che ne prevedono la graduale eliminazione.

Cina

Non ci sono attualmente discussioni sulle tasse. Tuttavia, di recente Pechino ha preso una decisione storica per l’industria automotive: a differenza di quanto avvenuto in passato, il 15° piano quinquennale 2026-2030 non include elettriche e ibride plug-in. Dopo 15 anni di aiuti, iniziati nel 2010, l’industria auto cinese non è più tra quelle strategiche della Repubblica Popolare: in un settore ormai maturo, le 130 Case automobilistiche cinesi faranno da sé.

Nuova Zelanda

L’esenzione dalle Road-User Charge per i veicoli elettrici leggeri e ibridi plug-in è terminata il 31 marzo 2024: si paga la tassa basata sulla percorrenza, contribuendo al finanziamento del sistema di trasporto stradale, come fanno già le termiche. Per le elettriche, Ruc di 76 dollari neozelandesi (37 euro) ogni 1.000 km, come le diesel. Le ibride plug-in pagano 38 dollari ogni 1.000 km: meno delle elettriche, perché contribuiscono già al sistema stradale pagando le tasse sul carburante. I proprietari devono acquistare e visualizzare un’apposita licenza Ruc (pre-paga la distanza che si intende percorrere, in blocchi di 1.000 km). L’esenzione era stata introdotta nel 2009 per promuovere l’adozione di elettriche ed è stata rimossa una volta che la loro quota ha raggiunto circa il 2% del parco circolante.

Islanda

Dal 1° gennaio 2024, è stato introdotto un canone chilometrico per le auto elettriche. Questa tassa si basa sul principio del “pay per use” e viene applicata in base alla percorrenza. L’importo è di 6 corone (4 centesimi di euro) a km. Inoltre, il governo islandese ha aumentato l’Iva sulle full electric dal 24% al 25,5%.

Australia

Nel luglio del 2021 lo Stato del Victoria ha introdotto la Road-User Charge per tutte le elettriche e ibride plug-in, diventando la prima giurisdizione del pianeta ad applicare una tassa sull'uso stradale specificamente per questi mezzi. La tassa è basata sul principio del “pay per use” e prevede un addebito di 2,6 centesimi di dollaro australiano (0,0146 euro) a km per le elettriche 2,1 centesimi per le ibride plug-in. Il governo ha giustificato questa mossa per garantire che tutti gli utenti della strada contribuiscano equamente al finanziamento delle infrastrutture stradali. La Corte Suprema ha dichiarato incostituzionale la tassa nel 2023, affermando che solo il governo federale può riscuotere imposte sull’uso stradale. Lo Stato del Victoria ha sospeso la Ruc annunciando l’intenzione di rivederla.

27/11/2025

24 nov 2025

Microrobot nel corpo umano
pubblicato da: admin

Microrobot nel corpo umano

I microrobot sono dispositivi dalle dimensioni paragonabili a un granello di polvere.

Sono realizzati con materiali biocompatibili che permettono loro di muoversi nei fluidi corporei e di interagire con i tessuti senza danneggiarli.

La loro struttura varia in base all'obiettivo: alcune versioni sono rigide, altre più morbide, ma in ogni caso pensate per adattarsi ai movimenti dell'ambiente in cui vengono inserite.

Il principio alla base del loro funzionamento è semplice: questi sistemi non si muovono da soli, ma rispondono a stimoli esterni. I più studiati utilizzano campi magnetici che orientano la loro forma e li spingono lungo una direzione precisa. In alternativa, trovano impiego ultrasuoni o fasci di luce, che producono micro-vibrazioni o cambiamenti di temperatura utili a generare movimento.

All'interno del corpo potrebbero svolgere compiti molto diversi. Un modello può trasportare piccole dosi di farmaco in un punto definito. Un altro può rompere o attraversare un ostacolo, come un coagulo in un vaso stretto. Altri ancora sono progettati per trattenersi in un'area e rilasciare il loro contenuto in più fasi.

Tutto dipende dalla forma, dai materiali e dal tipo di stimolo usato per guidarli.

Non si tratta, quindi, di robot nel senso comune del termine. Non hanno microchip né autonomia decisionale. Sono strumenti passivi, controllati dall'esterno con tecnologia avanzata, che trasformano un comando in un piccolo movimento mirato. È proprio questa combinazione tra miniaturizzazione e controllo ciò che li rende così interessanti per la medicina di precisione.

Come si muovono nel corpo: guida magnetica, ultrasuoni e luce

Il movimento dei microrobot nasce dalla capacità di rispondere a stimoli esterni che ne orientano la posizione e ne regolano la velocità. Tra le soluzioni più studiate c'è la guida magnetica. I materiali che compongono questi dispositivi contengono particelle sensibili ai campi magnetici, che permettono di controllarne l'assetto con una precisione difficile da ottenere con altre tecnologie. Variando l'intensità del campo, il microrobot può ruotare, spingersi in avanti o seguire un percorso definito lungo vasi o cavità.

Un'altra opzione è l'uso degli ultrasuoni. Le onde sonore ad alta frequenza possono generare micro-forze che muovono la superficie del dispositivo o attivano parti flessibili della sua struttura. Questo approccio è interessante perché gli ultrasuoni sono già ampiamente usati in clinica per diagnosi e terapie: integrare il controllo dei microrobot in strumenti già presenti negli ospedali potrebbe accelerarne lo sviluppo.

Esistono poi modelli che rispondono alla luce. Alcuni materiali cambiano forma o si espandono quando esposti a una specifica lunghezza d'onda. Altri sfruttano un lieve aumento di temperatura per contrarsi e generare piccoli scatti. Si tratta di soluzioni più sperimentali, utili in superfici accessibili o in organi raggiungibili con fibre ottiche.

Il principio comune è la necessità di un controllo esterno continuo. Nessuno di questi sistemi si muove in autonomia. Ogni passo del loro percorso dipende da segnali che devono essere regolati in tempo reale, in modo da evitare deviazioni o interazioni indesiderate con i tessuti.

Le applicazioni più promettenti: cosa possono già fare in laboratorio

La ricerca sui microrobot si concentra su poche, ma molto concrete, aree cliniche. I risultati arrivano da test condotti in ambienti controllati o su modelli animali. Sono prove ancora preliminari, ma utili per capire fin dove può spingersi questa tecnologia.

Microrobot contro i trombi

Una delle applicazioni più studiate riguarda i coaguli che si formano nei vasi sanguigni.

In laboratorio, alcuni microrobot guidati magneticamente riescono a muoversi in fluidi densi e attraversare canali che simulano la struttura di un vaso. Una volta raggiunto il trombo, possono frammentarlo grazie a movimenti rotatori o spingerlo verso un punto più accessibile.

Questo approccio potrebbe diventare utile nei vasi molto sottili, dove i cateteri tradizionali non arrivano. I test su modelli animali mostrano che è possibile localizzare il coagulo, agire con precisione e ridurre l'impatto sui tessuti circostanti.

Non è ancora una terapia, ma è una delle direzioni più realistiche della microrobotica medica.

Rilascio di farmaco mirato

Un altro filone riguarda la somministrazione mirata dei farmaci.

Alcuni microrobot sono progettati per trasportare piccole quantità di sostanza attiva e rilasciarla solo in un punto preciso.

Nei test condotti su modelli sperimentali, questi dispositivi riescono a raggiungere aree poco accessibili e a depositare il farmaco con un margine di errore molto ridotto.

Questo principio è particolarmente interessante in patologie in cui la terapia sistemica porta pochi benefici, perché solo una piccola parte della dose raggiunge l'organo bersaglio.

Con i microrobot, il carico verrebbe utilizzato in modo più efficiente, riducendo la quantità totale di medicinale e, potenzialmente, gli effetti collaterali.

Oncologia: colpire solo il tumore

L'oncologia è l'ambito che potrebbe trarre il maggior vantaggio da queste tecnologie.

Alcuni microrobot sperimentali sono in grado di penetrare nei tessuti più compatti, come le masse tumorali, e rilasciare al loro interno farmaci antitumorali o molecole terapeutiche.

Nei modelli animali questo approccio ha permesso di concentrare la terapia all'interno della lesione, evitando dispersioni nel resto del corpo.

Sono in studio anche sistemi "bioibridi", che utilizzano cellule viventi come parte del motore o del guscio esterno del microrobot. Queste cellule riconoscono naturalmente l'ambiente tumorale e aiutano il dispositivo a raggiungere la zona esatta. È un'idea ancora sperimentale, ma dimostra la varietà di soluzioni che la microrobotica sta sviluppando per le terapie oncologiche mirate.

La ricerca europea guarda lontano: microrobot morbidi e adattivi

Una parte importante della ricerca europea sta esplorando una nuova generazione di microrobot più flessibili e adattivi rispetto ai modelli tradizionali. L'obiettivo è renderli capaci di muoversi in ambienti irregolari e di lavorare a contatto con tessuti delicati, riducendo al minimo il rischio di danni.

Per ottenere questo risultato, i ricercatori stanno impiegando materiali morbidi, spesso simili a un idrogel, che possono cambiare forma quando esposti a un campo magnetico o a un'onda ultrasonora.

Questi dispositivi non si limitano a trasportare un farmaco. Alcuni prototipi sono progettati per vivere fasi diverse: possono scivolare lungo una superficie, rimanere ancorati per un periodo definito e, se necessario, modificare il loro profilo per adattarsi ai movimenti dell'organo.
Inoltre, sono in corso studi anche per soluzioni in grado di espandersi o contrarsi in risposta a uno stimolo, così da superare ostacoli o entrare in cavità molto strette.

L'aspetto più interessante riguarda l'interazione con le tecniche di imaging. I materiali morbidi possono essere formulati in modo da riflettere ultrasuoni o segnali magnetici, migliorando la loro visibilità durante il movimento. Questo punto è cruciale: seguire con precisione la posizione del microrobot è una delle sfide principali. Se la visualizzazione diventa più semplice, anche il controllo del tragitto risulta più affidabile.

Questa linea di ricerca è ancora in fase preliminare, ma rappresenta una delle direzioni più promettenti: ridurre la rigidità, aumentare l'adattabilità e integrare meglio il microrobot con l'ambiente biologico. È una strategia che potrebbe aprire a impieghi futuri non solo per il rilascio mirato dei farmaci, ma anche per interventi mini-invasivi o per il monitoraggio locale di processi infiammatori.

Quanto siamo vicini alle applicazioni cliniche?

La microrobotica medica è una tecnologia promettente, ma la distanza tra laboratorio e ospedale resta significativa.

I risultati più convincenti arrivano da test in vitro e da modelli animali, dove è possibile controllare ogni variabile e guidare il robot lungo percorsi chiari.

Nel corpo umano, però, le condizioni cambiano in modo continuo. Il flusso sanguigno varia da un distretto all'altro, i tessuti hanno rigidità diverse e la presenza di ostacoli può deviare il movimento del dispositivo.

Per questo motivo, la fase clinica non è ancora iniziata. Prima di arrivare all'essere umano servono dimostrazioni solide su tre aspetti: sicurezza dei materiali, tracciabilità precisa e capacità di mantenere il controllo del tragitto in ambienti complessi. I materiali devono essere biocompatibili e non accumularsi nei tessuti. La visualizzazione deve consentire di seguire il microrobot in tempo reale, senza zone d'ombra. La guida magnetica o ultrasonora deve reagire a cambi di direzione improvvisi senza perdere precisione.

Un altro punto critico riguarda lo smaltimento. Al termine della missione, il dispositivo deve dissolversi in modo controllato o essere recuperato con tecniche sicure. Solo così si può evitare il rischio di una permanenza indesiderata nell'organismo. Ogni soluzione in fase di studio affronta questi problemi in modo diverso, ma nessuna è pronta per un impiego clinico sistematico.

Nonostante queste sfide, la direzione è chiara. I progressi nella miniaturizzazione, nei materiali e nei sistemi di imaging stanno accelerando. Se i test preclinici continueranno a produrre risultati costanti, i primi studi sull'essere umano potrebbero arrivare nei prossimi anni, inizialmente in condizioni molto controllate e su patologie ben definite.

Oggi, tuttavia, è importante distinguere tra prospettiva e realtà: i microrobot non rappresentano ancora una terapia, ma una linea di sviluppo che potrebbe cambiare il modo in cui raggiungiamo organi e tessuti difficili.

Quali benefici potrebbero portare alla salute

L'interesse verso i microrobot nasce dalla possibilità di rendere molte terapie più precise e meno invasive.

Ogni trattamento che oggi richiede un accesso diretto all'organo o dosi elevate di farmaco potrebbe, in futuro, lasciare il posto a un dispositivo che raggiunge il punto esatto e agisce solo lì. È un cambio di prospettiva importante: ridurre la quantità di farmaco disperso nell'organismo significa limitare gli effetti collaterali e migliorare la tollerabilità delle cure, soprattutto in pazienti fragili.

Un'altra opportunità riguarda le zone difficili da trattare con tecniche convenzionali. I vasi molto sottili, le cavità irregolari o i tessuti profondi rappresentano spesso un limite per gli strumenti rigidi. Grazie alle dimensioni ridotte e al movimento guidato dall'esterno, un microrobot potrebbe superare questi ostacoli e consegnare una terapia in aree finora poco raggiungibili. Nei modelli sperimentali, questa strategia ha già mostrato una buona stabilità del percorso e un rilascio controllato del carico terapeutico.

La microrobotica potrebbe anche contribuire a ridurre il numero di procedure invasive. Se sussiste la possibilità di raggiungere una lesione senza incisioni o di trattare un coagulo senza introdurre strumenti rigidi, il recupero risulta più semplice. I prototipi più avanzati puntano proprio a questo: ottenere un'azione mirata senza perturbare in modo significativo l'ambiente circostante.

Infine, alcune linee di ricerca studiano la possibilità di usare microrobot per monitorare i tessuti dall'interno. Non in modo continuo, ma in momenti mirati, per valutare l'evoluzione di un processo infiammatorio o la risposta a una terapia. Anche questa è una prospettiva ancora lontana, ma utile per capire come la tecnologia potrebbe estendere il campo della medicina di precisione.

24/11/2025


06 nov 2025

Intesa UE sul clima. I crediti co2 arrivano...
pubblicato da: Web Master

Intesa UE sul clima. I crediti co2 arrivano..

L’accordo tra i ministri dell’Energia arrivato al termine di una maratona di 24 ore, porta in dote una traiettoria decisamente più morbida rispetto ai desiderata della Commissione europea, pur mantenendo l’obiettivo di una riduzione del 90% delle emissioni entro i prossimi 15 anni. Ma per Tabarelli il Green deal è ancora micidiale

06/11/2025

L’accordo sul clima raggiunto a Bruxelles dopo la 24 ore di confronti e faccia a faccia tra i ministri dell’Ambiente del Vecchio continente, è motivo di soddisfazione per l’Italia. Essenzialmente, per due motivi. Primo, il raggiungimento del taglio del 90% delle emissioni entro il 2040 avrà margini di flessibilità più alti. Secondo, Roma non si presenterà a mani vuote all’appuntamento, al via in queste ore, a Belém in Brasile, sede della Cop 30.

Una maratona quella di ieri, dunque, che ha visto il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, guidare una pattuglia in grado di rompere il fronte dei contrari (alla fine hanno votato non all’accordo Slovacchia, Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria).

Per arrivare alla maggioranza qualificata, dunque, c’è voluto un giorno intero e la notte tra negoziati e scrittura di un nuovo testo che fosse un compromesso ancora più forte rispetto a quello presentato alla vigilia della riunione straordinaria. Perché molti Paesi, Italia in prima fila, hanno puntato i piedi per avere una traiettoria meno rigida. La maggiore flessibilità sta tutta nella possibilità di contabilizzare nel bilancio delle emissioni fino al 5% di crediti internazionali di carbonio extra Ue. E, come richiesto il modo particolare proprio dall’Italia, si è andati anche oltre: un aggiuntivo 5% di crediti esteri potrà essere acquistato dai Paesi, per coprire gli sforzi nazionali. Resta, comunque, l’avvio al 2036, con un periodo pilota che potrà iniziare nel 2031. Il testo, inoltre, conferma una clausola di revisione su base biennale (come già proposto dalla presidenza danese) a seguito di una valutazione da parte della Commissione della legge sul clima.

Di più. Assieme all’intesa sui target 2040 è arrivato anche l’accordo tra i 27 Paesi Ue sul contributo determinato a livello nazionale (Ndc), ovvero il contributo dell’Ue agli sforzi globali sul clima per il 2035 richiesti dagli impegni della Cop30 di Belém, in Brasile. Il range sul quale è stato trovato un accordo prevede un taglio delle emissioni compreso tra il 66,25% e il 72,5% rispetto ai livelli del 1990, in pratica lo stesso intervallo indicato nella dichiarazione presentata dall’Ue alla Unfccc (la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) a settembre. Infine, altra piccola vittoria italiana, sarà rinviata di un anno, dal 2027 al 2028, l’entrata in vigore del sistema di scambio di quote di emissione per l’edilizia e il trasporto stradale: il meccanismo estende il campo d’azione del mercato del carbonio perché coinvolgerà nuovi settori strategici per il raggiungimento della neutralità climatica.

Difficile dire quale sarà l’esito del negoziato, che comincerà verosimilmente a dicembre, tra Consiglio Ue e Parlamento. Se da un lato la frenata sul Green deal all’insegna della maggiore flessibilità, pur mantenendo gli obiettivi finali di decarbonizzazione, ha segnato divisioni profonde nella maggioranza parlamentare pro Ue che sostiene la Commissione europea, dall’altro lato si resiste a seguire la stessa Commissione e i governi sull’operazione semplificazione normativa o sul prossimo bilancio Ue. La cosa certa è che l’intesa di oggi è stata una prova rilevante a favore di un compromesso fra ambizione pro clima, competitività industriale e indipendenza energetica.

Lo stesso ministro Pichetto Fratin ne vede il bicchiere mezzo pieno, parlando di “compromesso equilibrato”, nonostante le critiche ricevute da più parti, sia da alleati di governo, in particolare la Lega, sia dall’industria. Pichetto ha riconosciuto che l’Italia è stata determinante per rimuovere la minoranza di blocco che avrebbe potuto frapporsi sui pesanti obiettivi di taglio alle emissioni che la Ue si è autoimposta. “La partita era estremamente difficile, c’è stato tutto un percorso per raggiungere l’intesa. Si è aperto un confronto con la minoranza di blocco, eravamo in grado di bloccare le misure. Ma poi noi ci siamo presentati con una serie di temi, che sono quelli che la presidente del Consiglio Meloni ha illustrato al Parlamento. E incassati questi aspetti l’intesa era un punto di interesse nazionale notevole”, ha proseguito Pichetto. La stessa linea che avrà l’Italia in Brasile, Paese verso il quale è in volo il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. “L’Italia”, ha chiarito una nota della Farnesina, “ribadirà la sua ferma determinazione a fare la propria parte per limitare l’aumento della temperatura globale, invitando tutti gli Stati parte a coniugare ambizione e realismo, perseguendo gli obiettivi climatici con apertura e innovazione, ma evitando i dogmatismi”.

E anche secondo il ministro per le Imprese, Adolfo Urso, “siamo finalmente nella fase decisiva, ieri il ruolo significativo, importante, protagonista dell’Italia ha consentito di realizzare modifiche importanti e significative nel patto per il clima con l’introduzione del concetto fondamentale della neutralità tecnologica, della flessibilità e, quindi, della revisione biennale e il riconoscimenti finalmente pieno del biocarburante. L’Italia è in campo da protagonista, finalmente riusciamo ad aggregare una maggioranza riformatrice ed è il momento giusto per raggiungere gli obiettivi”.

LA VERSIONE DI TABARELLI

L’Italia può quindi esprimere la sua soddisfazione in merito alla maggiore flessibilità nel raggiungimento dei target. Era possibile staccare un dividendo più cospicuo? E cosa rimane del Green deal dopo l’intesa tra i ministri dell’Ambiente? Formiche.net ne ha parlato con Davide Tabarelli, fondatore e presidente di Nomisma Energia. “Quello di Bruxelles è solo un dolcificante, anche se è un primo passo che può far ben sperare. Ma pensare di tagliare le emissioni del 90% in 15 anni è ancora un salto mortale, una cosa mostruosa. Insomma, un rischio enorme. Di più, una follia, che conferma ancora una volta il distacco dalla realtà dell’Europa”, ha commentato Tabarelli.

“Non posso dare un giudizio positivo all’accordo raggiunto a Bruxelles. Ma non perché non condivida il fatto che il Green deal ad oggi rappresenti ancora una rivoluzione poco sensata, da correggere prima che sia troppo tardi, anche attraverso quella flessibilità appena abbozzata nell’intesa sulle emissioni. Il punto è che bisognava fare di più, portare a casa una prima, vera, messa in discussione della transizione così come impostata dalla Commissione europea”, aggiunge. “Quello che voglio dire è che siamo in una trappola, uscire dal tentativo di rivoluzione verde in cui siamo finiti sarà difficile”.

A chi fa notare come la flessibilità prevista nell’accordo, grazie alla spinta italiana, è comunque un primo segnale di ripensamento, Tabarelli non nasconde un accenno di soddisfazione. “Certo, da 0 a 100, 50 è meglio di zero, è già qualcosa. Ma la sostanza è la stessa, l’impianto è quello. L’obbligo di mettere fuori dal mercato i motori a benzina e diesel entro il 2035 è ancora lì. E lo stesso taglio delle emissioni al 90%. Queste sono le follie che ancora sono presenti nel Green new deal. Certo, aumentare del 5% la contabilizzazione del carbonio è un buon segnale. Ma da una transizione veramente realista e realizzabile, siamo lontani anni luce. La verità è che il Green deal, ad oggi, rimane un tentativo, maldestro e micidiale, di rivoluzione. La crescita in Europa negli ultimi 30 anni è stata del 60%, negli Stati Uniti di quasi tre volte. Se vuoi sviluppo, devi fare Pil e il Green deal invece questa crescita la soffoca, nonostante le buone intenzioni. Ecco come stanno le cose”.

Una strada che l’Italia ha deciso di battere, lavorando sia sul versante del consenso, sia su quello industriale è quella del nucleare. “Ci vorrà del tempo per il nucleare, e nelle more che facciamo. Non possiamo pensare di azzerare tutto in attesa che arrivi l’atomo. Anche nel più ottimistico dei casi, dal momento in cui arrivasse il via libera ci vorrebbero almeno 10 anni per l’entrata in funzione della prima centrale. In ogni caso però, l’Italia ci deve provare: il nucleare è necessario se vogliamo avere una fonte di energia pulita e controllabile nell’ottica della transizione energetica”.

Insomma, le date da cerchiare con il rosso sono due, 2035 e 2040. Tabarelli però nutre seri dubbi sul fatto che, alla fine, la tagliola su benzina e diesel scatterà tra dieci anni. “Credo che quel target verrà rivisto, anzi ne sono quasi certo. Parliamo di fisica dell’energia, in Europa ci sono 250 milioni di auto con l’elettrico al 2%. E pensiamo a togliere dal mercato oltre il 90% del parco macchine circolante in dieci anni. Qualcuno prende come riferimento la Cina. Ma non è un riferimento, non può esserlo per l’Europa. Ritmi e velocità troppo diversi”.